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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 maggio 1996
 
di Stephen Frears, con John Malkovich, Julia Robert, Glenn Close (Stati Uniti, 1996)
 
Stephen Frears non ha ovviamente bisogno di verifiche sulla sua qualifica di Autore.

Ma proprio a proposito di questo film nel quale egli ritrova lo sceneggiatore (Christipher Hampton) e gli interpreti di uno dei suoi film più folgoranti, la tentazione è forte di citare quanto si diceva a proposito di LE RELAZIONI PERICOLOSE: è la tenerezza per la vittima, oltre che la seduzione nei confronti della perversità (già presente nei film precedenti del regista inglese) che addolcisce la meccanica implacabile del film: tenerezza per le vittime designate, ma soprattutto per coloro che dal piacere dell'astuzia sprofondano negli abissi delle sfide impossibili, fino alla scadenza dei sentimenti, alla consolazione dell'amore, ed alla morte.

Il fascino più intimo di questo film controverso è racchiuso in quei sentimenti. E come non constatare una volta ancora come non sempre sia il pubblico (più che distratto, manipolato da un'offerta di consumi che lo porta a cercare ciò che gli si vuol rifilare, piuttosto che ciò che egli potrebbe volere: in questo caso il solito film sui mostri e fantasmi a colpi di canini ed effetti speciali) ad avere ragione. Dal confronto con i produttori hollywoodiani (che s'aspettavano certamente qualcosa di diverso) è nato uno dei film più insoliti e segreti della stagione: tutto teso alla descrizione di una violenza interiore, sociale e psicologica, più che a quella costruito sulla solita azione o sulle immagine di sintesi alla moda.

Adattando il romanzo (vogliamo chiamarlo femminista?) di Valerie Martin, Frears sposa uno sguardo un inedito sul dramma mitico che Robert Louis Stevenson aveva scritto in tre giorni nel 1885: quello di una domestica di casa Hyde. Cosi il capolavoro visionario che anticipava le teorie di Freud prefigurando l'Inconscio, sembra trovare una nuova ragione d'essere, dopo le innumerevoli versioni e trascrizioni cinematografiche (da quella classica di Mamoulian con Friedrich March, a Renoir, a quelle satiriche di Jerry Lewis) delle quali è stato oggetto.

Frears ha il coraggio di stare al gioco. Pur sposando il concetto della schizofrenia, non si attiene alla tradizione più ovvia che vuole un Dr. Jekill nobile e luminoso umanista confrontato con la propria ombra nera, il Mr. Hyde orribile che lo attira negli abissi oscuri. Colloca la sua storia in piena epoca vittoriana: caricandone di tutte le fobie ed ipocrisie l'ambiente. Di una società che aveva fatto della famiglia, della religione, della proprietà i valori assoluti il regista filma la città, con la miseria, la promiscuità, la violenza: tutto quanto questa società aborriva, il sesso, i corpi, il desiderio. All'interno di una costruzione d'epoca, dalle pietre grigie e pesanti, ricostruisce una sorta di labirinto mentale: che dai locali della servitù (osservata come in un trattato sugli usi e costumi d'epoca) conduce a quelli del padrone bicefalo. Chi fa da tramite (la fragile, ma determinata bellezza di Julia Roberts, che poche volte ha utilizzato i suoi reclamizzati occhi di cerbiatta con altrettanta giustificazione) fra i due ambienti trasporta, certo, le sue turbe (la ragazza ha un passato traumatizzato, un padre incestuoso, delle cicatrici che sollevano la curiosità immediata del Dr, Jekill... ; e pure tutta la componente masochista che la porta a sopportare le vicinanza di Mr. Hyde) ma pure la sua carica vitale. Che è quella dell'eterno femminile, di una carità che esprime nei confronti del malaticcio Jekill, e di una sensualità che finisce per farle vincere il terrore nei confronti di Hyde. O, se preferite, dell'amore: che, con una dolcezza che contrasta singolarmente con le tensioni dell'ambiente e dell'immaginario, si afferma con la sua forza consolatrice e dominatrice nei confronti dapprima delle ipocrisie, poi delle turbe e del male.


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